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FOSBURY, L’EDISON DELLE PEDANE

E il salto in alto non fu più lo stesso.

Tempo di lettura: 5 minuti

Paolo Marabini

Quel salto fu come l’invenzione della lampadina: una rivoluzione. Aveva 16 anni, Richard Douglas “Dick” Fosbury, quando in una gara scolastica presentò per la prima volta un embrione del suo personalissimo stile. Cinque anni più tardi, ai Giochi di Città del Messico, tutto il mondo lo vide in tv. E il salto in alto, da quel momento, non fu più lo stesso. Gli bastarono una gara, una vittoria e quella primizia davanti agli 80.000 spettatori dell’Estadio Olimpico per entrare nella storia dello sport. Una volta conquistato l’oro a cinque cerchi, sparì infatti nel breve volgere di un paio d’anni, lasciando in eredità alle future generazioni quel suo gesto atletico, che sarebbe diventato di lì a poco l’esclusivo marchio di fabbrica della specialità.

Tutto era cominciato dieci anni prima a Medford, Oregon meridionale, a pochi chilometri dal confine con la California. Dick praticava diversi sport, ma appena a scuola conobbe il salto in alto, ne rimase stregato e vi ci cominciò a dedicare anima e corpo. Saltava con lo stile “a forbice”, perché gli veniva più naturale. Tuttavia l’allenatore del liceo, Dean Benson, gli fece capire che continuando così avrebbe limitato parecchio le proprie ambizioni. Allora, a 15 anni, passò allo “straddle”, cioè il valicamento ventrale, in auge all’epoca un po’ ovunque, dopo che il californiano George Horine ne aveva gettato il seme nel 1912, con la nascita del “western roll”, prima che l’altro statunitense Les Steers lo perfezionasse 29 anni più tardi.

Con il ventrale, Fosbury impiegò un anno per arrivare a fatica a 1.63, cioè la misura raggiunta con l’altro stile, mentre i migliori coetanei del Paese erano già a 1.78. Era un po’ mortificato. E non mancò di dirlo a Benson, che a quel punto gli concesse la facoltà di scegliere. Nel maggio 1963, Dick prese parte a un meeting statale e cominciò la gara saltando a forbice. Superato l’1.63, cioè il primato personale, fu molto combattuto se continuare così oppure provare il ventrale.
Ci pensò un attimo, poi convenne che doveva inventarsi qualcosa di nuovo se voleva superare la misura successiva, 1.68. Improvvisò: al momento dello stacco alzò i fianchi, le spalle ruotarono all’indietro e, così facendo, andò oltre l’asticella con relativa facilità. Ripetè quel gesto anche a 1.73, poi a 1.78. Alla fine, archiviò la gara al terzo posto, con un progresso di 15 centimetri in un colpo solo.

Gli era venuto naturale saltare in quel modo inusuale e perciò decise di insistere su quella strada. Il suo era uno stile talmente innovativo che mandò in crisi il suo allenatore: Benson non sapeva come comportarsi per dare al suo allievo nuove istruzioni. In maniera del tutto empirica, a ogni gara Dick modificò qualcosa della sua tecnica. Sino a che, nel 1965, superò per la prima volta i 2 metri e raggiunse l’impostazione pressoché ideale. In sostanza, dopo una rincorsa arcuata, affrontava l’asticella di spalle e la superava con la testa in avanti e la schiena inarcata rivolata al suolo: il vantaggio consisteva nel tenere più basso il baricentro del corpo.

Anche il nuovo tecnico al college, Bernie Wagner, provò a riportalo al ventrale, ma dopo pochi mesi si arrese all’evidenza quando Dick salì a 2.10 e migliorò il record dell’Oregon State University, preludio alla stagione d’oro successiva: era inutile insistere, imporgli lo stile ritenuto ortodosso, se il ragazzo si trovava meglio e saltava più in alto facendo a modo suo. Il 1960 cominciò nel migliore dei modi: il 16 febbraio, a Louisville, con quello che qualcuno aveva battezzato “back layout”, Dick superò 2.16. Il 15 giugno fece ancora meglio, vincendo a Berkeley i campionati universitari con 2.19. E, due settimane più tardi, a Los Angeles, vinse con 2.16 i Trials Usa per i Giochi olimpici di Città del Messico.

La gara fu però ripetuta, perché gli esclusi dai Giochi protestarono in quanto erano state cambiate le regole di selezione. Ma anche nella replica, il 16 settembre a South Lake Tahoe, Fosbury fu il migliore, portandosi addirittura a 2.21 e candidando fortemente il proprio nome per il podio olimpico. Per la verità gli Usa puntavano soprattutto su Ed Caruthers ed erano ancora scettici nei confronti del “sacrilego” ragazzo dell’Oregon che saltava in quel modo strano.

Il 20 ottobre ci fu la resa dei conti e Dick, sin dal primo salto, stregò il mondo, ancora stordito dal fantascientifico 8.90 di Bob Beamon nel salto in lungo, realizzato appena due giorni prima. A pochi, se non agli addetti ai lavori, era giunta voce che un biondo americano aveva stravolto i canoni della specialità. E tra questi era forte la curiosità di vedere dal vivo cosa mai avesse di speciale quello stile rivoluzionario. Fosbury entrò in gara a 2.03 e subito gli “oh” di stupore echeggiarono nell’Estadio Olimpico. Superò al primo tentativo anche 2.09, poi 2.14, 2.18, 2.20.

E la meraviglia generale crebbe di salto in salto.

A 2.22 rimasero in gara in tre: Fosbury, Caruthers e il sovietico Gavrilov. Ma nonostante avesse ormai una medaglia al collo, Dick non era sazio. Nell’occasione più importante voleva stupire sino in fondo, imporre il suo “black layout” con una vittoria pesante. E così fece. Superò anche 2.22 e si portò in vantaggio, poi a 2.24 Caruthers e Gavrilov fallirono mentre lui, al terzo tentativo, passò anche quell’altezza che mai aveva superato prima.

I 2.29 del record mondiale (nel 1963 il sovietico Valery Brumel era arrivato a 2.28) erano ancora prematuri. Tuttavia Dick li tentò ugualmente, per soddisfare l’attesa di quegli 80mila sugli spalti – oltre che i milioni di telespettatori – peraltro già soddisfatti di aver assistito a quella pietra miliare nella storia del salto in alto. E anche per cominciare ad annusare l’aria di quella misura straordinaria, alla quale avrebbe potuto dare la caccia l’anno dopo.

Ma come velocemente aveva fatto irruzione dalle parti del tetto del mondo, altrettanto alla svelta sparì dalla circolazione. Appagato dall’oro olimpico, il risultato massimo a cui potesse ambire un atleta, e forse anche spossato dall’overdose di attenzioni che il suo salto – nel frattempo ribattezzato “Fosbury Flop” – aveva provocato in tutto il mondo, Dick discese a misure modeste. E due anni dopo la stupefacente prodezza messicana divenne praticamente un ex atleta, con in tasca una laurea e, davanti a sé, una brillante carriera come ingegnere.

Il suo stile impiegò qualche anno a prendere piede e a soppiantare del tutto lo “straddle”. La tv ebbe l’effetto di propagarlo ovunque. E sebbene i puristi, soprattutto in Europe, nel frenassero la diffusione, continuando a divulgare in pedana il verbo del valicamento ventrale, le nuove generazioni di saltatori si convertirono via via al “Fosbury Flop”.

La diffusione del nuovo stile non vacillò nemmeno quando il giovanissimo sovietico Vladimir Yaschenko, a soli 19 anni, nel 1978 riportò in auge il ventrale elevando il primato mondiale a 2.35. Il dado ormai era tratto: ai Giochi di Mosca 1980, 13 dei 16 finalisti saltarono con il “Fosbury Flop”. E di lì a poco lo “straddle” sparì dalle pedane. Per sempre.

Memoriale a Dick Fosbury nella Oregon State University

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