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CIAO CARLONE

Tempo di lettura: 3 minuti

Paolo Marabini

Carlone se n’è andato stanotte.

Ahimè,  sapevamo che era arrivato al capolinea del suo bel viaggio. Ma speravamo in un colpo di coda, che gli regalasse ancora un po’ di tempo di questo viaggio, che per un certo tratto ho vissuto pure io, da collega più giovane – quasi un figlio, per la carta d’identità – con il privilegio della sua grande stima nei miei riguardi, che spesso manifestava con parole cariche di sentimento, anche una volta che aveva imboccato la via della pensione. E quei complimenti, quelle attenzioni speciali, quegli attestati di stima, mi mettevano un po’ in difficoltà, mi emozionavano pure.  Mi voleva tanto bene Carlone, sì. E mi leggeva con affetto, tutti i giorni, non lesinando appunti, sempre garbatamente, se avevo scritto qualcosa su cui non era d’accordo.

Carlone, all’anagrafe Carlo Gobbi, collega alla redazione Sport Olimpici della Gazzetta, era un uomo d’altri tempi. Un uomo rispettoso, dai modi sempre gentili, con quella vena di ironia tipica della sua terra – l’Emilia Romagna – che a volte era spontanea, ricercata, pertanto arguta e sottile. Altre, invece, era figlia di un suo essere teneramente ingenuo, e arrivava a provocarci reazioni esilaranti: un giorno, promesso, snocciolerò un po’ di aneddoti immortali, che giust’appunto qualche giorno fa abbiamo rievocato in redazione.

Amava visceralmente lo sport, Carlone. Soprattutto certi sport: volley, rugby e judo su tutti. E poi quelle discipline di nicchia che compongono l’arcipelago olimpico ed emergono giusto quella volta ogni 4 anni, se c’è una medaglia a spingerle sopra il livello dell’interesse generale che le sommerge abitualmente, in un Paese (quasi) tutto concentrato su una sola palla e su un grande prato verde.

Già ai suoi tempi si crucciava degli spazi da monolocale o da sottoscala destinati alle sue amate nicchie – fossero l’hockey pista o il tiro a volo – peraltro in un’epoca in cui, sui giornali non ancora travolti dallo tsunami internautico, di spazi per quelle nicchie ce n’erano ancora. Eppure lui ne seguiva sorti, vicende e storie con passione e curiosità esemplari, ammirevoli. Pensate ora, quanto sarebbe forte il suo cruccio. E infatti, da lettore assiduo e attento, soprattutto da uomo Gazzetta sin dentro all’ultima cellula, non lo risparmiava al mio indirizzo.

Mi scriveva, col consueto garbo, addolorato per certe dimenticanze a suo dire inaccettabili. E io a ribadirgli tutte le volte come il cambio dei tempi, così repentino, non lasciasse altra via, a noi superstiti di quei giornali che avevano viaggiato a gonfie vele e che noi avevamo avuto la fortuna di abitare. E ringraziasse il cielo di essersi risparmiato, grazie all’ingresso in pensione giust’appunto nei giorni topici dello tsunami, quella rivoluzione epocale. Ma niente: non se ne dava pace, non se ne voleva farsene una ragione. E me lo scriveva riconoscendomi suo consimile, finanche un suo erede, avendo io nelle mie corde la stessa poliedricità di interessi, la stessa passione e lo stesso DNA rosa che aveva guidato la sua carriera, pur  occupandomi solo occasionalmente delle discipline a lui più care.

Ironia della sorte, ieri sera, poche ore prima che ci lasciasse, dopo quasi 30 anni ero tornato a scrivere di rugby. E mentre lo facevo, a ogni riga mi chiedevo che cosa mi avrebbe detto privatamente l’indomani, cioè oggi. Perché di sicuro lo avrebbe fatto.

Sorrido a questo pensiero, mentre piango la morte di Carlone, che se ne è andato via con il suo meraviglioso carico di rara umanità. E insieme considero quelle poche righe un segno del destino, un testimone, un lascito. Che mi tengo ben stretto.

Ho un solo rimpianto: non essere riuscito a portarlo alla Biblioteca dello Sport Nerio Marabini. Si sarebbe sentito a casa sua. E sì, credo proprio che sarebbe arrivato a versare anche lui una lacrima per quel posto, quintessenza sua e non solo mia.

Ciao Carlone. Alpino fiero. Uomo buono e gentile. I tuoi messaggi li ho tutti qui, nel cuore.

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